IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato la presente ordinanza nella Camera di Consiglio del
 9  luglio  1992  sul  ricorso  n.  486/1992,  con  unita  istanza  di
 sospensione    dell'esecuzione,    proposto   da   Rampino   Antonio,
 rappresentato e difeso dall'avv.  Franco  Carrozzo  ed  elettivamente
 domiciliato,  presso  lo  studio  dell'avv.  Enrico  Guglielmucci, in
 Trieste, via Milano, 17; contro il Provveditorato agli studi di Udine
 in persona  del  provveditore  pro-tempore,  ed  il  Ministero  della
 pubblica  istruzione  in  persona  del  Ministro  in carica, entrambi
 rappresentati e difesi dall''Avvocatura distrettuale dello  Stato  di
 Trieste,   domiciliataria   per   legge;  per  l'annullamento  previa
 sospensione dell'esecuzione, del  decreto  provveditoriale  prot.  n.
 11077/C1/92  dd.  27 maggio 1992, con cui viene disposta la decadenza
 dal servizio del ricorrente;
    Visti gli atti e documenti depositati col ricorso, ivi compresi  i
 motivi aggiunti;
    Vista  la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento
 impugnato, presentata in via incidentale dal ricorrente;
    Visti gli atti di costituzione in giudizio  del  Provveditorato  e
 del Ministero convenuti;
    Vista la propria ordinanza n. 215/1992 dd. 9 luglio 1992;
    Udito  il  relatore consigliere Enzo Di Sciascio ed uditi altresi'
 l'avv. Carrozzo per il ricorrente e l'avv. dello Stato Scotti per  le
 amministrazioni intimate;
    Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Con  il ricorso in epigrafe l'istante, ausiliario presso la scuola
 media statale "Tiepolo" di Udine, espone di essere stato  condannato,
 con  sentenza  emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p., per il reato
 di cui all'art. 73, primo e quinto comma del d.P.R. n. 309/1990,  per
 la  detenzione  di  una  modica  quantita'  di sostanza stupefacente,
 accertata il 14 marzo 1992.
    Con l'impugnato provvedimento, il  Provveditorato  agli  studi  di
 Udine  ha  pronunziato  la  sua  decadenza  dal  servizio,  ai  sensi
 dell'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, cosi' come  modificato
 dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16.
    Il   ricorrente   ha   sostenuto   l'illegittimita'   del  decreto
 provveditoriale, per  violazione  di  legge  ed  eccesso  di  potere,
 chiedendone   la   sospensione   dell'efficacia  a  questo  tribunale
 amministrativo.
    In particolare, come motivi di gravame ha dedotto, in primo luogo,
 la  violazione  degli  artt.  7,  8  e 10 della legge n. 241/1990 non
 essendo   stato   reso   edotto    dell'avviso    del    procedimento
 amministrativo,  poi conclusosi con l'atto impugnato. In tal modo non
 gli sarebbe stato consentito di conoscere l'oggetto del provvedimento
 promosso, ne' di prenderne visione, ne' di  presentare  osservazioni.
 In secondo luogo ha contestato la violazione dell'art. 15 della legge
 n. 55/1990, cosi' come modificato dall'art. 1 della legge n. 16/1992,
 nell'assunto  che  le norme indicate prevederebbero la decadenza solo
 per  il  responsabile  di  produzione   o   traffico   di   sostanze,
 stupefacenti   e   non   per  il  semplice  detentore  delle  stesse,
 aggiungendo quindi che, essendo  stata  la  condanna  pronunciata  ai
 sensi  dell'art. 444 del c.p.p., non ci si troverebbe di fronte a una
 sentenza di condanna,  presupposto  indispensabile,  ai  sensi  delle
 disposizioni appena citate, del provvedimento di decadenza.
    Ha  infine  dedotto  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 15
 della legge n. 55/1990, cosi'  come  modificato  dall'art.  1,  comma
 primo e quarto-quinquies, septies e octies della legge n. 16/1992, il
 cui combinato disposto configurerebbe una figura normativa, al di la'
 della mera differenza del nomen juris, di vera e propria destituzione
 di diritto, in seguito a condanna penale, del pubblico dipendente.
    Invero  il  decreto  di decadenza costituirebbe atto dovuto per la
 p.a. in presenza di condanna irrevocabile (o di applicazione  di  una
 misura   detentiva   di   prevezione)  nelle  ipotesi  normativamente
 previste,  senza  alcuna  discrezionialita',  dal  momento  che,   in
 presenza  dei predetti presupposti, la competente autorita' e' tenuta
 ad emanare in via automatica la sanzione amministrativa  piu'  grave,
 quella cioe' di carattere espulsivo.
    In  tal  modo sarebbe violato l'art. 3 della Costituzione, essendo
 precluso all'autorita'  procedente  di  apprezzare,  ad  esempio,  la
 maggiore o minore gravita' del delitto, la capacita' a delinquere, la
 eventuale  concessione  della sospensione condizionale della pena, la
 estraneita' o meno del fatto al servizio ovvero la sussistenza o meno
 di un abuso dei poteri e della qualita' di pubblico dipendente.
    Non  essendo  consentita,  pertanto,  la  valutazione  di   alcune
 circostanze  inerenti  la mancanza accertata, conducendo in ogni caso
 questa alla decadenza, verrebbero  equiparate  quoad  effectum  dalle
 norme   sospettate  di  incostituzionalita'  situazioni  notevolmente
 differenti fra loro.
    L'art. 3 della Costituzione  sarebbe,  ulteriormente  violato  sia
 perche'  esse  prevedono,  per  i  dipendenti  statali,  l'automatica
 perdita del posto di lavoro anche per condanne penali che,  se  rela-
 tive  a  fatti  di  lieve  entita' e se condizionalmente sospese, non
 comporterebbero tale grave conseguenza per i dipendenti privati,  sia
 perche'  opererebbero  una  irragionevole  purificazione, quanto alle
 conseguenze fra pubblici dipendenti e soggetti che ricoprono  cariche
 pubbliche  elettive.  Se  infatti  si  considerano  e  il particolare
 rapporto  fiduciario  che  lega  l'eletto  a  cariche  pubbliche   al
 cittadino elettore e la delicatezza delle funzioni che il titolare di
 uffici  elettivi  e'  chiamato  a  svolgere, nonche' la necessita' di
 specchiate   doti   di   onesta'   e   dirittura   morale   richieste
 all'amministratore  pubblico,  si dovra' riconoscere che si tratta di
 situazioni non assimilabili a quelle del dipendente  di  un  pubblico
 ufficio  e  tali da non giustificare il medesimo regime sanzionatorio
 applicato.
    Sarebbero altresi' violati gli artt. 4 e 45 della Costituzione, in
 quanto  la  decadenza  dal servizio in un caso, come quello de quo di
 lieve  condanna,  per  di  piu'  condizionalmente  sospesa,   sarebbe
 incompatibile  con  la  tutela  del  lavoro, che tali norme intendono
 assicurare.
    Sarebbe inoltre violato l'art. 24 della Costituzione, dal  momento
 che  le  norme,  della cui costituzionalita' si discute, prevedono la
 sanzione amministrativa piu' grave senza concedere  all'incolpato  di
 poter   svolgere  le  sue  difese  in  un  procedimento  disciplinare
 amministrativo.
    Le medesime  disposizioni  violerebbero  infine  l'art.  97  della
 Costituzione,  in  quanto  la definitiva estromissione dalla pubblica
 amministrazione di un  dipendente,  che  ha  riportato  una  condanna
 penale  non  grave, non corrisponderebbe ai canoni di imparzialita' e
 buon andamento dell'azione amministrativa.
    Si e' costituita in giudizio, per gli organi  dell'amministrazione
 della   pubblica   istruzione  intimati,  l'avvocatura  dello  Stato,
 riportandosi al rapporto del Provveditorato, da cui emerge la  natura
 di atto dovuto del provvedimento Impugnato.
    Nella  camera  di  consiglio  del  9  luglio 1992 questo tribunale
 amministrativo, chiamato a pronunciarsi, con ordinanza n. 215/1992 ha
 ritenuto non sussistere il fumus boni juris  nei  motivi  di  gravame
 diversi  dalla  sollevata  questione  di costituzionalita', che ha al
 contrario considerata rilevante e non manifestamente  infondata,  nei
 limiti  dei  motivi  esposti  in  separata, piu' ampiamente motivata,
 contestuale ordinanza, con cui  si  provvedera'  ad  investire  della
 questione  stessa  la  Corte  costituzionale,  ed  ha  quindi sospeso
 temporaneamente il provvedimento  impugnato  fino  alla  decisione  e
 conseguente restituzione degli atti da parte del giudice delle leggi,
 cui seguira' la decisione definitiva sull'istanza cautelare.
                             D I R I T T O
    1.1.  -  Come  si  evince  dalla normativa in fatto, le censure di
 incostituzionalita', proposte dal  ricorrente,  investono  l'art.  15
 della  legge  19 marzo 1990, n. 55, nel testo modificato dall'art. 1,
 comma primo e comma quarto quinquies, septies e octies della legge 18
 gennaio 1992, n. 16.
    1.2. - Dev'essere, peraltro, notato che  le  disposizioni  di  cui
 all'art.  1,  comma  primo  e  comma quarto quinquies e septies della
 legge n. 16/1992  non  appaiono  rilevanti  per  la  risoluzione  del
 presente  giudizio,  dal  momento  che,  delle  due  ultime, la prima
 disciplina la decadenza dalla carica dei pubblici amministratori e la
 seconda la sospensione dei pubblici dipendenti, nelle fattispecie in-
 dicate dal primo comma predetto, che a sua  volta  concerne  soltanto
 candidati a cariche elettive o pubblici amministratori.
    Il  presente  ricorso concerne invece la decadenza dal servizio di
 un pubblico dipendente, per essere  stato  condannato,  con  sentenza
 passata  in  giudicato,  per uno dei reati a cui la legge n. 55/1990,
 cosi' come modificata dalla legge n. 16/1992, ricollega la  decadenza
 dalla   carica   dei   pubblici   amministratori.   Tale   estensione
 dell'istituto della decadenza, originariamente  introdotto  dall'art.
 15  della legge n. 55/1990, soltanto per coloro che ricoprono cariche
 pubbliche,  anche  al  personale  dipendente  dalle   amministrazioni
 pubbliche,  e' opera esclusivamente dell'art. 1, comma quarto-octies,
 della legge n. 16/1992 che, attraverso una serie di rinvii  ricettizi
 ai  precedenti commi quarto-septies, sexties, quinquies e, attraverso
 quest'utlimo, al comma primo, determina l'estensione predetta.
    1.3.   -   La   risoluzione   pertanto    della    questione    di
 costituzionalita',  nei  termini prospettati in ricorso, dell'art. 15
 della legge n. 55/1990,  sulla  parte  in  cui  e'  stato  modificato
 dall'art.  1,  comma  quarto-octies  della  legge  n. 16/1992, appare
 indubbiamente rilevante, in quanto decisiva ai fini dell'accoglimento
 o del rigetto dell'istanza cautelare  proposta  dal  ricorrente,  dal
 momento  che  costituisce  l'unico  motivo  dedotto, a sostegno della
 stessa, che non sia stato dichiarato privo di sufficiente fumus  boni
 juris  da questo tribunale amministrativo con la precedente ordinanza
 n. 215 dd. 9 luglio 1992 e dal momento che la sospensione  temporanea
 del  provvedimento  impugnato,  da essa disposta, verra' a cessare al
 momento della pronuncia e della restituzione degli atti da parte  del
 giudice delle leggi.
    2.1.  -  Fra  le  questioni sollevate e ritenute rilevanti sembra,
 peraltro, manifestamente infondata a questo Tribunale quella relativa
 alla assunta illegittimita'  costituzionale  del  combinato  disposto
 delle  norme  appena  citate con l'art. 3 della Costituzione sotto il
 profilo  dell'irragionevole  deteriore  trattamento,  in  seguito   a
 condanna penale, dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati.
    Non  appare  invero  ingiustificata tale diversita' di disciplina,
 sia perche' concerne categorie di lavoratori il cui  stato  giuridico
 appare  tuttora  profondamente  differenziato,  per  le  esigenze  di
 interesse pubblico che connotano l'attivita' degli uni, a  differenza
 di  quella  degli  altri,  sia  perche'  non  sembra  illogico che la
 necessita' di mantenere  il  prestigio  dell'ufficio,  propria  della
 pubblica   amministrazione,  induca  il  legislatore  ad  atteggiarsi
 diversamente in ordine alle mancanze del pubblico dipendente rispetto
 a quelle del privato.
    2.2.  -  La  denunciata  illegittimita'  costituzionale,  riferita
 all'art. 15 della legge n. 55/1990 cosi' come modificato dall'art. 1,
 comma  quarto-octies  della  legge  n.  16/1992,  appare peraltro non
 manifestamente infondata al  collegio  sotto  gli  ulteriori  profili
 sollevati.
    Invero  con  la  disposizione  menzionata e' stata sostanzialmente
 reintrodotta, sia pure con la diversa denominazione di decadenza, una
 fattispecie di destituzione di diritto del  pubblico  dipendente  per
 condanna  penale  e  cioe'  una sanzione espulsiva automatica che, al
 verificarsi del presupposto, costituito dal  passaggio  in  giudicato
 della  relativa  sentenza (o dalla definitivita' del provvedimento di
 applicazione della misura di prevenzione) fa venir  meno,  attraverso
 l'attivita',  vincolata  in  tal senso, dell'autorita' competente, il
 rapporto di pubblico impiego in atto sussistente.
    Una volta pertanto che, per uno dei reati indicati al primo  comma
 dell'art.  1  della  legge  n.  16/1992,  sia intervenuta sentenza di
 condanna  passata  in  giudicato,  all'autorita'  amministrativa   e'
 preclusa  qualsiasi  valutazione,  anche  nella  sua  sede  naturale,
 costituita dal procedimento  disciplinare,  e  qualsiasi  gradualita'
 sanzionatoria,  ma  le  e'  imposto  dalla  disposizione,  della  cui
 costituzionalita' si fa questione, di pronunciare  in  ogni  caso  la
 decadenza del pubblico dipendente condannato.
    Ritiene  il  collegio  che, in tal modo, considerato l'automatismo
 normativo cosi' predisposto, si sottopongono indiscriminatamente alla
 piu'  grave  misura  sanzionatoria  comportamenti  di  assai  diversa
 gravita'  (non  potendosi  apprezzare  p.e.  ne' la piu' o meno lieve
 entita' del reato,  ne'  la  concessione  o  meno  della  sospensione
 condizionale  della  pena, ne' l'eventuale esistenza di recidiva, ne'
 la connessione del  reato  col  servizio,  ecc.).  Appaiono  pertanto
 violati i criteri di coerenza e ragionevolezza desumibili dall'art. 3
 della Costituzione, cosi' come evidenziati dalla sentenza n. 971/1988
 della  Corte  costituzionale.  Ulteriore violazione dell'art. 3 della
 Costituzione deriva dal fatto di aver  parificato,  nelle  condizioni
 che  determinano  la  decadenza,  i  pubblici dipendenti a coloro che
 ricoprono cariche pubbliche. Ne e' derivata  la  duplice  irrazionale
 conseguenza  che  a  questi  ultimi, nei confronti dei quali e' forse
 giustificato, per la natura fiduciaria  del  rapporto  con  il  corpo
 elettorale  o  con  quello  politico  da  cui  derivano  le  funzioni
 ricoperte,  un  particolare  rigore  in  presenza  di   comportamenti
 delittuosi,  sono  assimilati  soggetti  per  i  quali,  in  analoghe
 ipotesi, la normativa previgente, emanata su impulso delle menzionate
 pronunzie  del  giudice  delle  leggi,  ha  ritenuto  sufficiente  la
 valutazione in sede disciplinare delle conseguenze amministrative dei
 reati  commessi;  che inoltre, nel mentre i primi decadono solo dalla
 carica ricoperta i  secondi,  subendo  ben  piu'  grave  conseguenza,
 decadono dal servizio.
    Tale  automatica  risoluzione  del  rapporto  d'impiego, anche per
 reati di non rilevantissima entita', come nel  caso  de  quo,  appare
 inoltre  incomputabile  e  con la tutela del lavoro, assicurato dagli
 artt. 4 e 35 della Costituzione e con i criteri  di  imparzialita'  e
 buon  andamento,  cui,  ai  sensi del successivo art. 97, deve essere
 ispirata  l'attivita'  delle  pubbliche   amministrazioni,   per   la
 sproporzione  che  puo'  determinarsi  tra  fatto commesso ed estrema
 gravita' della sanzione, concretandosi nella  perdita  dei  mezzi  di
 sussistenza.
    In  tal  modo  viene  inoltre tolto al pubblico dipendente colpito
 dalla decadenza il  diritto  di  esporre  le  sue  ragioni  e  difese
 all'amministrazione  in  sede  di procedimento disciplinare prima che
 gli venga comminata la sanzione, con conseguente violazione dell'art.
 24, secondo comma, della Costituzione.
    3. - Essendo state ritenute, nei  limiti  e  per  i  motivi  sopra
 esposti,   rilevanti   ai   fini   della  decisione  dell'istanza  di
 sospensione in  esame  e  non  manifestamente  infondate  le  dedotte
 questioni  di  illegittimita'  costituzionale  il collegio ritiene di
 disporre la sospensione del giudizio e rimettere gli atti alla  Corte
 costituzionale, affinche' si pronunci in proposito.